In una relazione pubblicata su Trends in Neuroscience, Nicolas G. Bazan, MD, PhD, “Boyd
Professor” e direttore del Neuroscience Center of Excellence al LSU Health Sciences
Center di New Orleans, riferisce del ruolo che svolgono gli acidi grassi omega-3 presenti nell’olio di pesce nella protezione delle cellule della retina contro patologie
degenerative, quali la retinite pigmentosa e la degenerazione maculare senile,
che è la causa principale della perdita della vista nei soggetti di più di 65
anni di età.
La relazione è intitolata: “Cell survival matters: docosahexaenoic
acid signaling, neuroprotection and photoreceptors” (“Questioni di
sopravvivenza cellulare: segnalazione dell’acido docosaesaenoico, neuroprotezione
e fotorecettori”). In queste patologie che portano all’ipovisione, le cellule
dei fotorecettori (coni e bastoncelli) degenerano e muoiono. Anche se ad
innescare questo processo possono essere molti fattori diversi, uno degli
elementi di protezione più significativi è la stretta correlazione tra l’attività
delle cellule dell’epitelio pigmentato retinico (RPE) e la quantità di acido docosaesaenoico
(DHA) presente al loro interno.
La principale funzione delle cellule RPE è il
mantenimento dei fotorecettori: portano avanti il lavoro quotidiano di
disseminazione, internalizzazione e degradazione dei diversi segmenti esterni
dei fotorecettori. Ma adesso sembra che le cellule RPE abbiano un ruolo chiave
anche per la sopravvivenza delle stesse cellule dei fotorecettori. Tanto le cellule
dei fotorecettori, quanto quelle dell’epitelio pigmentato retinico sono
costantemente esposte a fattori potenzialmente dannosi come la luce del sole ed
un’alta tensione di ossigeno.
Come le cellule riescano ad evitare di subire danni
da questi e altri fattori è rimasto un mistero fino ad oggi. Il gruppo del dr.
Bazan al LSU Health Sciences Center, in stretta collaborazione con colleghi di
Harvard, è giunto a diverse scoperte chiave che stanno iniziando a fornire risposte
a questo complesso problema. Una di queste scoperte è l’importanza del DHA. Le
cellule RPE fanno fronte alla luce solare ed allo stress ossidativo, nonché ai
traumi, avvalendosi di antiossidanti come la vitamina E, presenti al loro interno.
Parte della risposta delle cellule RPE sta nell’attivazione della sintesi di un
importante composto dall’effetto neuroprotettivo, scoperto dal dr. Bazan e
colleghi e chiamato neuroprotectina D1 (NPD1). La NPD1 inibisce geni che
inducono l’infiammazione e la morte cellulare e che sono normalmente attivati
dallo stress ossidativo e da altri fattori scatenanti. Le cellule RPE
contengono un membro della famiglia degli acidi grassi omega-3, il DHA, che il
dr. Bazan e colleghi hanno trovato essere un precursore della NPD1.
Le cellule
RPE regolano l’assunzione, la conservazione ed il rilascio del DHA nelle
cellule dei fotorecettori. Il DHA, che è noto scarseggiare in pazienti affetti
da retinite pigmentosa e sindrome di Usher, promuove una segnalazione cellulare
protettiva, favorendo l’espressione delle proteine benefiche, al posto di quelle
distruttive, nonché stimolando la produzione di NPD1. Il DHA e la NPD1 riducono
anche la produzione di radicali liberi nocivi. Il dr. Bazan ha dimostrato che l’azione
di promozione della sopravvivenza e inibizione della morte cellulare espressa
dal DHA non è limitata alle sole cellule dei fotorecettori, ma si estendeva
anche ai neuroni in un modello sperimentale del morbo di Alzheimer.
Rimangono molte questioni aperte, tra cui l’identificazione
di un ulteriore recettore ritenuto essere un passaggio importante nel
metabolismo della NPD1 e il rilevamento di ulteriori informazioni circa la
segnalazione che controlla la formazione della NPD1. È da chiarire anche se la NPD1,
o una sua controparte sintetica, possa essere efficace se somministrata a scopi
terapeutici.
“Poiché le prime manifestazioni cliniche della
maggior parte delle degenerazioni retiniche precedono la massiccia morte
cellulare all’interno dei fotorecettori, è importante stabilire gli eventi
cruciali iniziali”, nota il dr. Bazan. “Questa conoscenza potrebbe essere
applicata per la progettazione di nuovi interventi terapeutici volti a fermare
o rallentare il progresso della malattia.”
Fonte:
LSU Health Sciences Center
Articolo tratto da Olympian's News n° 86, pag 38. Pubblicato da Sandro Ciccarelli Editore. Tutti i diritti sono riservati. Clicca qui per abbonarti!
Articolo tratto da Olympian's News n° 86, pag 38. Pubblicato da Sandro Ciccarelli Editore. Tutti i diritti sono riservati. Clicca qui per abbonarti!
Nessun commento:
Posta un commento